IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Visti  gli  atti  del  procedimento  penale indicato in epigrafe ed
 all'esito dell'udienza preliminare nei confronti di:
     1) L. G., libero assente;
     2) S. L., libera assente.
   Difesi, di fiducia: il primo dall'avv. Giovanni Sofia;  la  seconda
 dagli  avv.ti  Giovanni  Sofia  e  Rosanna Perna entrambi del Foro di
 Salerno;
   Costituite parti civili: L. G. e M. G., difesi dall'avv.  Francesco
 Saverio Del Forno del Foro di Salerno;
   Letta  la  richiesta  di  rivio  a  giudizio  nei  confronti  degli
 imputati, depositata dal p.m. il 16 dicembre 1997, in ordine al reato
 p. e p. dall'art. 564, secondo comma, c.p. perche' essendo  tra  loro
 affini  in  linea retta instauravano una relazione incestuosa in modo
 che ne derivava pubblico scandalo - Reato  commesso  in  S.  Gregorio
 Magno (Salerno) fino all'anno 1997;
   Viste  le  conclusioni  rassegnate  dalle Parti all'odierna udienza
 preliminare;
                              R i l e v a
   Iscritta notizia di reato a carico del L.  e  della  S.,  fra  loro
 suocero  e  nuora,  all'esito  delle  indagini preliminari, nel corso
 delle quali  venivano  adottate  misure  restrittive  della  liberta'
 personale   degli   imputati,  il  p.m.  esercitava  l'azione  penale
 formulando l'imputazione riportata in epigrafe.
   Le fonti di prova acquisite appaiono idonee a sostenere l'accusa in
 dibattimento sicche' questo  giudice  altro  non  potrebbe  fare  che
 disporre  il  rinvio  a  giudizio  degli imputati, nondimeno, ove una
 norma sia reputata    "iniqua"  si  rende  necessario  verificare  la
 compatibilita' di tale norma con i canoni costituzionali.
   Nel   caso  di  specie  si  dubita  della  costituzionalita'  della
 disposizione che incrimina affini in  linea  retta,  quali  sono  gli
 imputati,  che  intrattengano  una relazione affettiva ove questa sia
 condotta in guisa da suscitare pubblico scandalo.
   Nessun dubbio che comminare sanzione penale e' scelta rimessa  alla
 discrezionalita'  legislativa  e,  proprio in tema di incesto, appare
 significativo constatare come, storicamente,  i  legislatori  abbiano
 fatto  largo  uso  di  tale discrezionalita': fra i codici preunitari
 l'incesto era punito dal codice sardo e dal codice  toscano,  non  lo
 era dal codice del Regno delle Due Sicilie e del Ducato di Parma.
   Tuttavia  per  giurisprudenza  costituzionale,  se  e' vero che non
 rientra nei compiti del giudice delle  leggi  "rimodulare  le  scelte
 punitive  effettuate  dal legislatore... alla Corte rimane il compito
 di verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia
 rispetti il limite della ragionevolezza" (Corte  cost.,  sentenza  n.
 341/1994).
   Il  criterio di ragionevolezza viene, in sintesi, individuato nella
 necessita', avuto riguardo al settore penale,  che  l'incriminazione,
 anche  se "presumibilmente idonea a raggiungere finalita' statuali di
 prevenzione, non  produca,  attraverso  la  pena,  danni  ai  diritti
 fondamentali  dell'individuo  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
 maggiori dei vantaggi ottenuti (e da ottenere) da quest'ultima con la
 tutela dei beni e  dei  valori  offesi"  (Corte  cost.,  sentenza  n.
 409/1989,  richiamata nella sentenza n. 341/1994) e nel fatto che "il
 principio di uguaglianza, di cui  all'art.  3,  primo  comma,  Cost.,
 esige  che  la pena sia proporzionale al disvalore del fatto illecito
 commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo,
 alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni
 individuali   ...   le   valutazioni  all'uopo  necessarie  rientrano
 nell'ambito  del  potere  discrezionale  del  legislatore,   il   cui
 esercizio  puo' essere censurato, sotto il profilo della legittimita'
 costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato  il
 limite  della  ragionevolezza"  (Corte  cost., sentenza n. 409/1989);
 inoltre la finalita' rieducativa della pena,  oggetto  dell'art.  27,
 terzo  comma,  Cost.,  esige  il  rispetto  di una costante regola di
 proporzione tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte,  e
 offesa,  dall'altra  (Corte cost. sentenze numeri 313/1990; 343/1993;
 341/1994).
   Consegue  che,  ove  le  condizioni  indicate  manchino,  la  norma
 incriminatrice deve reputarsi costituzionalmente illegittima.
   Si   aggiunga   che,   in   precedenza,  la  Corte  costituzionale,
 nell'individuare i parametri cui ancorare il canone di ragionevolezza
 ha mostrato di non  essere  insensibile,  da  un  lato,  all'indagine
 storico-comparatistica (Corte cost., sentenza n. 341/1994) dall'altro
 all'incongruenza  che  il  comune  sentire,  la  cosiddetta coscienza
 sociale o collettiva, ravvisa in talune  incriminazioni,  sia  questa
 incongruenza  determinata  dalla  quantita' (Corte cost., sentenza n.
 341/1994) ovvero dalla qualita' (Corte cost., sentenza  n.  519/1995)
 dell'incriminazione medesima.
   Tanto  premesso  nel  caso di specie occorre verificare, secondo un
 meccanismo argomentativo adottato, ad esempio, dalla  sentenza  Corte
 cost. n. 343/1993, se la compressione della liberta' personale - art.
 13,  primo  comma,  Cost., che gode della copertura dell'art. 2 della
 Costituzione  in  quanto  diritto  inviolabile:  cosi'  Corte  cost.,
 sentenza n. 343/1993 - degli affini in linea retta, sancita dall'art.
 564   c.p.,   sia   giustificata   alla  luce  dei  valori  che  tale
 incriminazione intende tutelare.
   Di certo, e senza ripercorrere itinerari ampiamenti noti, la ragion
 d'essere dell'incriminazione non va ravvisata  ne'  nel  pericolo  di
 commixtio  sanguinis,  come  e'  dimostrato proprio dal fatto che gli
 affini, per definizione non sono legati  da  vincoli  di  sangue  ne'
 nella  tutela  dell'unita' ed integrita' della famiglia, posto che la
 sanzione diviene applicabile solo se all'incesto  segua  il  pubblico
 scandalo  sicche' un incesto privo di tale requisito (e non interessa
 in questa sede  stabilire  se  il  pubblico  scandalo  sia  modalita'
 esecutiva  della  condotta  ovvero  figura  disciplinata dall'art. 44
 c.p.) non e' punibile.
   E' lecito  allora  ipotizzare  che  l'incriminazione  del  rapporto
 affettivo  e/o  sessuale tra affini, giuridicamente definito incesto,
 costituisca presidio dell'obbligo di fedelta' coniugale in quanto  il
 rapporto di affinita' e' per cosi' dire accessorio ovvero conseguente
 ad un rapporto di coniugio.
   Tuttavia  la  fedelta'  coniugale,  per  l'art. 564 c.p., non e' un
 valore assoluto, ancora una volta perche', onde applicare la sanzione
 penale, e' necessario il verificarsi del pubblico scandalo; se  cosi'
 e'  lo  scopo dell'incriminazione dell'incesto tra affini deve essere
 ravvisato nella tutela del valore sociale che alla fedelta' coniugale
 viene attribuito.
   Se  l'obbligo  di fedelta' coniugale non costituisce piu' un valore
 costituzionalmente cogente, come e' dimostrato dalle declaratorie  di
 incostituzionalita'  degli  artt.  559,  commi  1  e  2 (Corte cost.,
 sentenza n. 126/1968) e 559, commi 3 e 4, 560, commi 1, 2 e  3;  561,
 562  commi  1,  2  e 3, 563 c.p. (Corte cost., sentenza n. 147/1969),
 sembra irragionevole il sacrificio imposto  alla  liberta'  personale
 degli affini dall'art. 564 c.p. a fronte della tutela di un ipotetico
 sentimento  collettivo  di  biasimo  per una condotta che, allo stato
 attuale del costume, non  sembra  piu'  espressione  della  coscienza
 dell'uomo  medio,  posto che non viola ne' legami di consanguineita',
 come  tali  da  reputarsi  di  regola  indisponibili,   ne'   attenta
 all'unita'  familiare  in se' considerata, per come e' strutturata la
 incriminazione; tale condotta, al piu', potrebbe soltanto  ledere  la
 immagine del rapporto familiare quale si presenta  all'esterno.
   E,  oggi,  non  possono  convinzioni  per quanto diffuse e legate a
 determinate concezioni etiche e/o religiose restringere  la  liberta'
 personale dell'individuo (e si potrebbero citare, a tal proposito, le
 normative in tema di divorzio, aborto e di transessualita').
   Si  aggiunga,  ma  solo  per  scrupolo  di  completezza, che sembra
 incongruo punire l'incesto (il rapporto    sessuale)  tra  affini  in
 linea  retta  ma  non  quello  fra zio e nipote, legati da vincoli di
 sangue e reputati, agli effetti della legge penale (art.  307,  comma
 2, c.p.), prossimi congiunti.
   L'incriminazione dell'incesto tra affini in linea retta risponde ad
 una   concezione   dell'"apparire"   della   famiglia  quale  cellula
 autoritaria ed "etica" di una societa' altrettale che non sembra piu'
 conforme al sistema di tutela delle liberta'  dell'individuo  che  la
 Costituzione repubblicana garantisce.
   Ritenuto  pertanto  che l'incriminazione dell'incesto tra affini in
 linea retta appare in contrasto con gli artt. 2, 3, primo  comma,  13
 primo comma e 27, terzo comma, Cost.
   Che  la  questione  proposta non e' manifestamente infondata per le
 ragioni ut supra rappresentate;
   Che la stessa e' rilevante ai  fini  del  decidere  in  quanto  non
 ricorrono  le  condizioni  per l'emissione di sentenza ai sensi dello
 art. 425 c.p.p.